Cos’è un nome e come identifica ciò che designa? È questo
che dà corpo e forma di realtà ai luoghi e alle persone o è solo un orpello
esterno di cui vestirsi per rendersi riconoscibili agli altri? Già William Shakespeare
si interrogava: «Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d’avere il suo
profumo se la chiamassimo con un altro nome?». E, soprattutto, cosa intendiamo quando
diciamo gioia? Laura Imai Messina se lo è chiesto negli ultimi tre anni e il
frutto di questo domandare è il suo nuovo romanzo Non oso dire la gioia (Piemme,
pp. 408, € 18,50).
Due città, Roma e Tōkyō, e quattro personaggi: Clara,
Momoko, Marcel e Jean. Marcel ignora la provenienza del proprio nome; Jean, che
è in realtà Nicola, in questo scambio si illude di poter diventare altro; Clara
non ricorda le denominazioni delle strade e attribuisce loro il nome dei suoi
pensieri; Momoko, identifica una nazionalità ma non esaurisce in essa una
personalità. Ad accomunarli, tra le altre cose, è la ricerca di un linguaggio capace
di esprimere le emozioni e l’attesa di quelle. Quattro
vite, quattro individualità, quattro dolori che si incontrano sul palcoscenico
dell’esistenza e cominciano una recita estemporanea; la vita accade e trova
tutti impreparati. Clara, logorata da un desiderio ossessivo di maternità, «reitera
la vita come le si offre». Legata in matrimonio a un uomo che non ama, e verso
il quale prova solo riconoscenza, si nasconde dietro azioni dettagliate e
ripetute che la confermano e la destabilizzano perché «la gratitudine è altro
dall’amore», dalla passionalità che le brucia dentro. Momoko, indipendente e
decisa, «non cerca neppure l’amore […] ma pretende che le accada. Inatteso,
disannunciato e […] contaminante». Marcel, «d’indole buona e generosa», è invece
intrappolato nell’amore ingombrante di una madre, un amore che cresce intorno all’assenza
di un padre. Spinto dal desiderio della figura materna di renderlo il migliore,
Marcel esercita «la perfezione come un’arma», confidando che questa possa infine
colmare la mancanza e realizzare il desiderio di una felicità sempre rimandata.
Jean-Nicola vive rinchiuso in un esasperante vittimismo. All’inseguimento del
sogno di diventare un affermato romanziere, il possessivo Jean si strugge invidioso dell’amico Marcel – di quella gelosia che è «vizio generato dal contatto con chi
è più fortunato di noi», o si considera tale, per dirla con Emil Cioran che dà
il titolo al romanzo –, e si domanda come mai la gioia altrui sia così complicata
da gestire. Ciascuno di questi personaggi si porta dietro, come tutti del
resto, un buon carico di fragilità che guida azioni spesso controverse e a
tratti grottesche. Laura Imai Messina li segue nella vita che succede loro secondo
regole impossibili da determinare, senza esprimere giudizi di valore in merito
alle scelte dettate dall’assenza, dalla sottrazione; quest’ultima non è sempre
declinata al negativo ma è anche possibilità futura: ad esempio, Momoko è «convinta
che demolire lasci spazio a cose più solide, a gioie da venire».
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Messina 22.02.2018-Foto Café Inchiostro |
Se nel precedente Tokyo Orizzontale, interamente ambientato
in Giappone, si rendeva esplicito quell’incontro e scontro tra culture per la
difficoltà iniziale di smussare gli angoli, di varcare un nuovo alfabeto, in Non
oso dire la gioia le due realtà, italiana e giapponese, si compenetrano e i
personaggi si confondono nei due territori. «Clara – racconta Laura Imai
Messina nel primo incontro del suo booktour – è un personaggio italiano che non
ha nulla a che vedere col Giappone, ma è così calata dentro se stessa che non
riesce a ricordare il nome delle strade che percorre; mentre cammina per una
via pensa a quello che deve fare e automaticamente quelle strade prendono il
nome di un ingrediente, di cosa deve cucinare la sera, di un ricordo. In un
certo senso questo sua fare si ricollega a Tōkyō perché Tōkyō non ha nomi
propri per la maggior parte delle strade. Probabilmente, se non vivessi dove
vivo non mi sarebbe venuta questa idea. In Momoko, personaggio giapponese, c’è di
contro una passionalità che secondo me è italiana. Momoko, giapponese nella
movenza ma il pensiero contaminato dall’italianità, è una donna molto forte; mi
piace l’idea dell’Oriente che precipita nell’Occidente e lo scuote e allo stesso
modo l’Occidente che accoglie l’Oriente e le due cose si compenetrano».
Laura Imai Messina torna in libreria con un romanzo maturo, costruito
con attenzione attraverso una prosa intensa e ben congegnati espedienti
narrativi e temporali. Le tematiche che affronta sono delicate, la scrittura è
un continuo fiorire di dettagli, un ricamo sottile di descrizioni frutto di una
ricerca accurata del linguaggio che – come la stessa autrice ammette – è molto più
vicino, rispetto al primo libro, a quello pubblico del blog Giappone Mon Amour.
Sulla genesi dello scritto racconta: «È complicata perché la narrazione è
cambiata varie volte nel corso degli anni. Tutto ha avuto inizio dal
personaggio di Clara. Poi, leggendo un libro ho trovato il titolo. Io, mentre
leggo scrivo e per questo procedo lentamente. Spesso non riesco a finire i libri
perché mi lascio catturare da una frase, da una parola; allora, dimentico cosa
sto leggendo e parte il viaggio mentale. Insomma, tutto si collega. Mi sembra
ci siano stati tanti piccoli suggerimenti che sono convogliati nella scrittura di
questo romanzo».
L’amore, l’amicizia, la maternità, l’essere figli, la possibilità
della gioia sono elementi costanti in questo intreccio di storie. Clara
trasforma la sua ricerca di maternità in un tormento e Laura Imai Messina, che
ha tanto cercato per sé questa condizione, sottolinea come «qualsiasi
cosa che diventa un’ossessione si porta via un po’ di te, della tua
quotidianità, si mangia poco a poco la serenità».
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Foto di Laura Imai Messina |
Nonostante tutto, «si deve sempre lottare per ottenere qualcosa
– precisa l’autrice –, anche se non è detto che quel qualcosa arrivi o che chi
ottiene meriti ciò che ha ottenuto. È un pensiero destabilizzante perché
abbiamo sempre l’idea che come conseguenza dell’impegno ci sarà la realizzazione,
ma non esiste necessariamente questo tipo di collegamento. Per quanto riguarda la
gioia, quello che volevo esprimere nel libro è che qualcosa prima o poi arriva,
anche se non è detto che arrivi nella stessa forma che ci si aspetta. Serve comunque
coraggio per essere felici». La felicità va meritata e bisogna anche avere la
forza di accoglierla, distinguerla, capirla. E cosa è la gioia per Laura Imai
Messina? «Partendo dal titolo del romanzo – dice – ho scoperto che volevo, in qualche modo, individuarla. Distinguo la gioia dalla
felicità. La felicità ha al suo interno un’accezione di tempo, nel senso che
continua: è quasi uno stato e per questo è irrealistica. La gioia invece è un’esplosione,
un fuoco d’artificio: c’è ma è destinata comunque a finire. È più onesta,
perché se una gioia fosse continuativa si confonderebbe nell’abitudine e non la
si percepirebbe più».
Le vicende di Non oso dire la gioia si dipanano tra Roma e
Tōkyō in una contaminazione che solo chi vive le due realtà, e vi si adatta
senza doverle paragonare e scontrare, può cogliere: «Mi piaceva l’idea di riaprire
una finestra sull’Italia. In qualche modo nel descrivere Roma mi sono trovata a
Tōkyō, nel trovarmi a Tōkyō ho immaginato Roma. All’inizio non riuscivo a rappresentarmi
un luogo specifico, pensavo a una Rokyo, ma andando avanti le due realtà si
sono distinte. Tuttavia, anche se nel romanzo la corazza delle città e delle persone è di
una certa nazionalità, l’interno è opposto». Durante la lettura, impegnati nel
tentativo di seguire l’intreccio delle vite dei protagonisti, segnato da un alternarsi
di gioia e disperazione, una riflessione – molto cara all’autrice – si fa
strada, un adagio che cuce le storie: non conosciamo dell’altro che la parte. La
parzialità dell’esistenza investe luoghi e persone: «Alcuni luoghi esistono
solo in certe ore. […] Alcune città le si ricorda solo in certe stagioni. […] Alcune
persone vivono solamente in certi ruoli. […] Ci sono luoghi che esistono solo a
pezzi, la completezza non appartiene loro». Questo senso di parzialità – confessa
Laura – l’ha mutuato da Marcel Proust, la cui lettura ha generato una serie di
note «che sono diventate pezzi interi del libro». Da questa parzialità emerge
la necessità di un atto di fiducia per avviarsi lungo il sentiero dell’accettazione
dell’altro e di se stessi, così come anche del fallimento e della gioia. Solo in
questo stato di accettazione si può dire iniziato il processo di comprensione;
tuttavia, in un’esistenza in cui nulla si dà per scontato anche la fiducia ha i
suoi tempi e deve essere, come ogni cosa, meritata.
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Foto Café Inchiostro |
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